Il 20 aprile 2013 cinque attivisti entrano nel Dipartimento di Farmacologia dell’Università degli Studi di Milano, mentre in strada si svolge un presidio contro la sperimentazione sugli animali. Tanti slogan incitano all’occupazione degli stabulari e alla liberazione delle cavie lì rinchiuse. Il 28 aprile di quattro anni dopo, chi ha portato a compimento il volere di un movimento di protesta è chiamato a processo imputato per i reati di invasione di edificio pubblico, violenza privata e danneggiamento. Facile capire che violare forzatamente un luogo di tortura è un’azione di risposta verso coloro che, incaricati e protetti dalla legge, le torture le infliggono. Dopo decenni di controinformazione perdurano la negazione e l’occultamento dei luoghi di sofferenza dove muoiono gli animali destinati alla ricerca scientifica; non possiamo confidare in un confronto fra pro e anti-vivisezionisti, né tantomeno fra i mandanti istituzionali e le malcapitate vittime designate; l’agognato dibattito pubblico sulla questione stenta a manifestarsi ed è capillare la convinzione che, di fronte alla possibile cura degli individui di specie umana, sia lecito sacrificare chi non vi appartiene; l’intera arena politica, se non è completamente connivente, è muta e sorda, soprattutto se ciò che si manifesta è ben più che un flebile sentimento per gli animali “nostri”, “privati”. Lo scenario politico propina il sistema di valori specisti che a loro volta lo producono. L’azione diretta di liberazione testimonia la vitalità di chi, nonostante tutto, non ci sta e decide di compiere un atto di colpevolezza consapevole: colpire i luoghi di tortura per impedire lo sfruttamento. Da un lato ci sono le lobbies del capitale a braccetto con i loro esecutori sociali, dall’altro, costruite ad hoc, le categorie di inferiori non meritevoli di considerazione. Sentiamo in collegamento telefonico una delle imputate nel processo, Cristina Polzonetti, attivista del Coordinamento.